
Una domanda che sembra una frase da lancio cinematografico d'altri tempi, tempi che riecheggiano lontani nella mente di noi spettatori d'oggi, intrappolati - come siamo - in un volgare gioco televisivo che ci propone divetti da quattro soldi, assetati di quei 15 minuti, al posto di veri e meritevoli miti. Se Humphrey Bogart avesse visto Costantino, state pur certi che non vi sarebbe stata alcuna sanguinosa rivalità fra i due, solo un cazzotto di Bogie sul muso del belloccio e tanti saluti. Troppo ricco di talento lui, bravissimo nel dominare l'obiettivo. Nessuna prigionia in un mondo di scintillante apparire e clamorosamente falso.
Di lui ci rimangono sono quei momenti di sbalorditiva recitazione, in cui qualcosa di magico c'era e non si concludeva con la parola THE END, alla fine del film. Bellissimo (a modo suo) e rischioso, insolito, ma leggendario. Una leggenda che ha vissuto con disinvolta naturalezza, senza dare la sensazione di esserlo, senza montarsi la testa. Forse per non urtare la suscettibilità di noi comuni mortali o forse perché si considerava un perdente… come quei perdenti che ha interpretava al cinema. Virile, nonostante la sua bassa statura, mascolino e fisicamente minaccioso, ma denotato da un'integrità morale incorruttibile, anche se "sporca" e fumosa, nessuno si sarebbe mai aspettato che, dietro quella faccia da gangster, si nascondesse un intellettuale, idolatrato dagli stessi (come dimenticare il tributo che un altro newyorkese come lui, Woody Allen, ha fatto alla sua persona in Provaci ancora, Sam, in cui si rivolge al suo fantasma per ottenere consigli su come superare le difficoltà della vita). Il regista John Huston e il suo vero e unico grande amore, Lauren Bacall, a loro solo è stato concesso di chiamarlo veramente Bogie. Per noi, rimane solo Bogart.Già la sua nascita fu un mito. Si dice sia nato il 22 gennaio 1899, anche se successivamente gli uffici stampa delle major modificarono la data in 25 dicembre 1900, per renderlo ancora più leggendario.
Falso, secondo Hollywood (anche di fronte a chi dice una terza e quarta data: il 23 gennaio 1900 e il 25 dicembre 1899), la data vera è il 25 dicembre 1900, come attestato dal suo certificato di nascita di New York e dall'annuncio della sua nascita sul giornale locale, risalente al 10 gennaio 1900, nonché dai censimenti del giugno 1900 e dell'aprile 1910 (in cui lui ha 10 e non 11 anni).

Fra il 1920 e il 1922, entrò nella compagnia teatrale di un amico di famiglia William A. Brady (padre dell'attrice Alice Brady) che lo inserì negli spettacoli di varietà di New York. Proprio nel '20 debuttò sul grande schermo in Life (1920), pellicola muta di Travers Vale. Entrato sotto contratto con la Fox, partecipò a un cortometraggio di 10 minuti dal titolo Like That (1930) di Arthur Hurley e Murray Roth, seguito da Risalendo il fiume (1930) di John Ford, accanto a Spencer Tracy. La Fox però non lo sfrutterà a dovere, riuscendo a offrirgli solo piccole parti in pellicole come: Il gallo della checca (1930) di Irving Cummings, Big City Blues (1932) e Three on a Match (1932) di Mervyn LeRoy, senza dimenticare Sempre rivali (1933) di Raoul Walsh.

E dopo Sahara (1943) di Zoltan Korda, interpretò, in Acque del Sud (1945) di Howard Hawks, il rude Steve che capitola fra le braccia di Slim, una bella newyorkese che di nome vero fa Betty Perske, ma che il regista aveva ribattezzato Lauren Bacall.
Un colpo di fulmine in piena regola che porta Bogie al divorzio e rapidamente all'altare il 21 maggio dello stesso anno, con una cerimonia alla Malabar Farm, il ranch del premio Pulitzer e attore Louis Bromfield. Dalla Bacall avrà due figli: Stephen e Leslie, ma darà anche luogo a quei duetti fantastici che renderanno alcune pellicole mitiche. Un esempio su tutti: Il grande sonno (1946) di Hawks e la scena del fischio. «Se mi vuoi», dice la Bacall «non hai che da fare un fischio. Sai fischiare, no? Unisci le labbra… e soffi». Lui non arrivava al mento della Bacall, ma resse il

Fu uno dei pochi attori prediletti da scrittori come Chandler, Hemingway e Hammett. Nicholas Ray lo diresse ne I bassifondi di San Francisco – Crimen (1949) e Il diritto di uccidere – Paura senza perché (1950), ma fu John Huston a offrirgli finalmente l'Oscar con il ruolo dell'alcolizzato Charlie che si innamora di una zitella bigotta ne La Regina d'Africa (1952). Richard Brooks, ma principalmente Edward Dmytryk - che con il suo L'ammutinamento del Caine (1954) gli conferirà la terza nomination all'Oscar -, metteranno fine a quei ruoli da bastardo. L'arrivo di Joseph L. Mankiewicz (La contessa scalza, 1954), di Billy Wilder (Sabrina, 1954) e di William Wyler (Ore disperate, 1955) lo metteranno in luce come attore comico e dai sentimenti paterni. Mark Robson lo dirigerà per ultimo ne Il colosso d'argilla (1956). Poi, questo fumatore e bevitore accanito (si dice fumasse solo Chesterfields e ben 5 pacchetti al giorno) nello stesso anno si ammala e muore di tumore alla gola. Huston, il suo regista, il suo migliore amico, all'orazione funebre dichiarò: «Non abbiamo nessun motivo per provare dispiacere per lui che è morto, ma solo per noi stessi, poiché l'abbiamo perso. Bogey era insostituibile. Non ci sarà mai più nessuno come lui».Muore così l'antieroe per eccellenza, l'immortale perdente che eleva i perdenti al rango di modelli da imitare. Un uomo che ha avuto la fortuna di incontrare autori che sapevano sfruttare la sua energia, il suo volto, quel suo ghigno quasi infantile e quelle guance mal rasate. Chi come lui ha iniziato a fumare con la sigaretta a mezza bocca non può restare indifferente di fronte alla sua immagine sul grande schermo.

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